Era il 12 gennaio 1902, Torino era coperta da una grande
nevicata che per la sua entità aveva persino danneggiato numerosi tetti e cornicioni. Alla neve si era aggiunta una
nebbia pesante, bassa e giallognola. Nell’attuale piazza Savoia, all’epoca
piazza Paesana, stavano giocando alcuni bambini. Tra questi vi era Veronica
Zucca, figlia del proprietario dell’antistante bar Savoia. La piccola non era
in quel momento accompagnata dal fratello Giulio di 7 anni, né dalla sorella gemella
di 5 anni e mezzo.
Dato che si stava facendo tardi e il clima era estremamente
rigido, Veronica venne chiamata a gran voce dalla madre perché rientrasse. La
bambina era abituata a giocare sulla piazza, ma era solita tornare al primo
richiamo dei genitori. Fu così che la madre della piccola si preoccupò subito,
non vedendola rincasare. Si precipitò dai commercianti vicini, ma tutti
risposero la stessa cosa: avevano visto Veronica fino a pochi minuti prima, ma
era poi sparita nel nulla. La nebbia e la neve non facilitavano la ricerca ed
offrivano uno scenario inquietante. Ormai si era fatto tardi e si fecero le
prime ipotesi. Si disse che Veronica si fosse smarrita, ma era poco credibile.
La bambina conosceva bene quella zona, non si sarebbe mai persa per quelle
strade, in più non si allontanava mai. L’unica possibilità plausibile era
terrificante: Veronica era stata rapita. Alcuni nomadi erano stati visti in
zona e questo sembrava dare corpo alla teoria. Il secondo sospetto ricadde sul
sedicenne Alfredo Conti, ex dipendente del bar Savoia, che una volta licenziato
aveva minacciato di farla pagare al vecchio datore di lavoro. Vi fu anche una
dubbia testimonianza oculare di Conti che avvicinava la bambina e le chiedeva
di fare da intermediario con una terza persona che gli doveva dei soldi. Una
vicenda poco credibile. Il ragazzo fu rintracciato ed arrestato per qualche
giorno, ma alla luce di un buon alibi fu rimesso in libertà. La notizia che
aveva scosso la città, riempiendo le pagine dei giornali e mobilitando folle di
curiosi si perse nella memoria in poco tempo e le indagini dovettero ripartire
da zero.
Arrivò aprile e un gruppo di operai venne chiamato ad eseguire
dei restauri presso il sontuoso palazzo Saluzzo Paesana edificato nel 1715,
celebre ancora oggi perché per anni ha ospitato dapprima il cinema Alpi e poi
il Chaplin. Uno dei falegnami aveva bisogno di nuove assi di legno e sotto
consiglio di altri andò a cercarne negli scantinati del palazzo dei Marchesi.
Addentrandosi in questi “infernotti”, come venivano chiamati all’epoca, fu
colpito da un forte olezzo proveniente da un angolo. Trovò un cassettone che
ricordava una bara sopra al quale era stato collocato un vaso per i fiori.
Sollevando il coperchio rimase attonito: c’era il corpo di una bambina. Il
falegname chiamò i presenti terrorizzato. Furono in diversi a riconoscere
Veronica. La bambina sembrava quasi dormisse e che non avesse subito una morte
violenta. All’obitorio la rimozione della muffa raccontò una storia ben
diversa. La piccola vittima era stata trafitta da sedici coltellate. Era
rimasta poi per tutto quel tempo a pochi passi dal bar dei suoi genitori, come
per ironia del fato. Il mistero di via della Consolata riprese vita. Gendarmi e
carabinieri erano alla spasmodica ricerca di un colpevole, cosa che conduce
spesso a errori giudiziari. Si giunse all’arresto del padre di Veronica perché
nelle sue testimonianze si era contraddetto più volte. Venne arrestato
nuovamente anche il cameriere Conti, in seguito alla testimonianza di Giulio,
fratellino della vittima. Il bambino poi ammise di essersi inventato tutto
ridendo. Ancora una volta le indagini erano ad un punto morto. Si puntarono i
riflettori su Carlo Tosetti, cocchiere dei Marchesi del palazzo. Questi essendo
una persona estremamente riservata ed emotivamente vulnerabile non provò
nemmeno a difendersi. Venne messo agli arresti e vi restò 45 giorni. I giornali
lo chiamavano già “il mostro” e Tosetti era moralmente devastato. Il vero
omicida era ancora indisturbato e divertito dalla vicenda si aggirava per la
zona di piazza Savoia. Carlo Tosetti venne rilasciato per insussistenza di
prove, ma per l’onta non si sentì di riprendere il lavoro a palazzo Paesana e
si trasferì.
Giunse il maggio del 1903 quando Teresina Demaria, una
bambina di cinque anni figlia di un gasista residente nel palazzo Paesana
scomparve mentre stava giocando con altri bambini. L’allarme si diffuse:
c’erano troppe similitudini con la vicenda di Veronica. Si organizzarono subito
battute di ricerca, ma furono tutte infruttuose. Il portinaio del palazzo volle
tornare a esaminare la cantina del primo ritrovamento, ma nonostante la perizia
nella ricerca non vi trovò nessuno. Il portiere cercò di dormire, ma tutta la
notte ripensò all’accaduto. Al mattino, spinto dal suo intuito volle tornare
negli infernotti. Vide subito una pila di cuscini e su di essi Teresina. Era
stata colpita da tre pugnalate, ma grazie al custode fu salvata in extremis. Fu
lo stesso portiere a risolvere il caso. Affermò che il colpevole non poteva
essere che un certo Giovanni Gioli, lo spazzaturaio ventiquattrenne che il
giorno prima gli aveva chiesto le chiavi della cantina. Quest’ultimo era noto
in zona per essere una persona inaffidabile e pericolosa e, come disse la madre
stessa: “un po’ tardo, anche scemo”. Confessò senza nemmeno capire il suo
crimine: “Il coltello non tagliava, serviva solo a bucare”. Il 14 gennaio 1904
in Corte d’Assise rideva e mangiava pane. Non gli venne riconosciuta
l’infermità mentale, ma fu condannato solo a 25 anni e due mesi di reclusione.
All’uscita dal tribunale i carabinieri dovettero evitarne il linciaggio, ma la
città, almeno per un po’, poté tornare a dormire sonni tranquilli. Come
recitava La Stampa di quel giorno: “Giustizia è fatta. Per 25 anni Giovanni.
Gioli non commuoverà più la vita cittadina con nuovi mostruosi delitti; per 25
anni la madri torinesi non avranno più a temere, da lui, offese alle loro
creature.” Forse fu la Giustizia Divina ad agire perché dopo soli otto anni di
reclusione Gioli morì in carcere.
Michele Albera
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