venerdì 30 marzo 2012

Cortometraggio/Video

Ho scritto la sceneggiatura ed il soggetto di questo video di chiaro stampo Noir. Volevo raccontare una storia nei pochi minuti di questa canzone che avevo prodotto e registrato già un po' di tempo fa. Date un'occhiata.

mercoledì 28 marzo 2012

Visita al Museo di Antropologia criminale Lombroso


Il Museo di Antropologia criminale fondato da Cesare Lombroso, nel 1876 ha sede in Via Pietro Giuria 15 a Torino, collocato in prossimità del Museo della Frutta, del Museo di Scienza Naturali e della Facoltà di Fisica.
Prima di iniziare la visita, le aspettative riguardanti il museo non erano affatto eccelse, forse per la preoccupazione di affrontare un tema così impegnativo in uno spazio che credevo ridotto, ma già mi sono felicemente ricreduto. Caratteristico il fascino del palazzo che ospita il museo, per accedervi bisogna salire fino al piano nobile e questo aspetto a mio parere, non fa che aumentare la curiosità nel visitatore. Il costo del biglietto è di soli tre euro .
Il Museo è suddiviso in nove aree, la prima  chiamata “Motori, farmaci, telefono, lampadina” è preceduta da una zona introduttiva composta da una breve introduzione al museo e da una installazione a sospensione di tessuto su cui sono stampate delle facce di criminali studiati dal Lombroso.
Dopo il panello introduttivo, una voce registrata che mi porta nella prima stanza. Straordinario l'allestimento composto da una struttura in legno con delle sedute che ricorda un'aula di un tribunale dell'Ottocento. Qui un filmato ci spiega, grazie ad ottimi attori, la situazione sociale e criminale dell'epoca. Ottimo il materiale fotografico che viene proiettato  ai lati della televisione e i documenti che incorniciano la stanza che riguardano i dati statistici sui delitti in Italia nell'Ottocento.
La seconda stanza chiamata "Misurare, misurare", contiene un insieme di strumenti scientifici che Cesare Lombroso utilizzava per rivelazioni morfologiche e funzionali, ottimo lo stato di mantenimento degli strumenti e la tipologia d'illuminazione teatrale con tanto di contributo audio.
Da qui ci si addentra nel museo vero e proprio. Si accede alla terza stanza chiamata "Il mio museo". L'allestimento rievoca una sala di un museo storico. Sensazionale lo scheletro presente nella prima vetrinetta posta all'ingresso, perché è lo scheletro dello scienziato Cesare Lombroso, affiancato da una rassegna di oggetti rappresentativi delle diverse collezioni presenti nel museo. Al centro della sala troviamo armi dell'epoca, corpi del reato, reperti umani, manufatti carcerari e manicomiali e maschere mortuarie.
La stanza successiva si chiama "1870: la rivelazione". Vi sono scheletri  di animali e umani di criminali. Qui viene spiegata la teoria dell'atavismo, sviluppata da Lombroso tramite ducumenti a parete e nelle teche.
Nelle successive due stanze, "Arte, genio, follia" e "Menti criminali", vi sono opere artistiche realizzate da persone affette da disturbi mentali, manufatti dei carcerati, e una anfore decorate dai carcerati con scene che rievocano le disavventure dei loro "autori".
Proseguendo troviamo miniature e un gigante plastico di un carcere dell'Ottocento di Philadelphia. Particolareggiati i dettagli dei quattro modelli di celle dell'epoca, che stupiscono per le loro dimensioni e la storia raccontata in un piccolo pannello.
Arriviamo a "Il privato di Cesare Lombroso". Finalmente si entra un po' di più nel personale di Cesare Lombroso. La una voce di Lombroso traccia un bilancio della propria esperienza scientifica di fronte ad un geniale allestimento, una ricostruzione dell'ufficio in perfetto stile belle epoque, pieno di particolari, con gli oggetti originali dell scienziato.
Arriviamo all'ultima stanza chiamata "Un secolo dopo", un corridoio  di uscita  che riassume alcune delle questioni toccate da Lombroso, mettendo in evidenza gli sviluppi in campo scientifico e criminologico. Dietro ad un pannello descrittivo notiamo delle travi... che sono la celebre "Forca piemontese", un oggetto che storici e criminologi del Piemonte conoscono bene.

Casualmente mi è capitato di chiedere una semplice informazione ad un addetto alla sorveglianza, che con mio stupore ha saputo rispondere e mi ha dato una dettagliata spiegazione di alcune curiosità presenti all'interno del museo, questo ha scaturito un susseguirsi di richieste che ha saputo soddisfare.

Il museo è da visitare assolutamente per ogni appassionato di crimini e misfatti del passato. Riscoprire il padre della criminologia è un obbligo e il museo nel suo piccolo rende orgogliosamente giustizia al Lombroso.

giovedì 15 marzo 2012

Il caso Codecà: a Torino un omicidio tra spionaggio e guerra fredda

Era il 16 aprile del 1952. Sono passati 60 anni ed il caso Codecà è ancora un mistero a trame fitte, in cui le piste ed i moventi si confondono e non conducono a nessun  colpevole. Quella sera, Erio Codecà direttore della Fiat Spa, era uscito dalla sua residenza di via Villa della Regina 24 assieme al suo cane. La cameriera gli aveva fatto strada aprendogli la porta, ma rientrò subito in casa. Dopo poco la donna udì un colpo che poteva somigliare ad uno sparo, ma non diede molto peso alla cosa. Il rumore fece invece scendere in strada Luisa De Marzis, che abitava al civico 28 della via. La donna, in compagnia della figlia Adriana, non ci mise molto a scorgere il corpo dell’ingegnere riverso al suolo. Erano le 21:15 e Codecà era ancora vivo
Accanto a lui le chiavi della sua Fiat 1100, parcheggiata poco distante, gli occhiali ed il suo fedele  cane, uno spinone intento ad abbaiare furiosamente in direzione della collina, dove molto probabilmente era fuggito l’assalitore. La vittima spirò poco dopo il trasporto in una clinica nelle vicinanze, lasciando vedova la moglie Elena Piaseski, rumena di origini polacche ed orfana la figlia dodicenne Gabriella, che in quel periodo erano al mare in vacanza.
Dapprima si credette che il colpo avesse colpito Codecà alla nuca e la notizia fu diffusa dai giornali, ma da analisi più attente si appurò che il proiettile entrò sotto l’ascella destra. La pista inizialmente battuta portò ad un unico sospettato: l’ex partigiano Giuseppe Faletto. Il suo nome era stato fatto da due suoi ex compagni della brigata Garibaldi. Faletto, o meglio “Briga”, come era soprannominato, oltre ad essersi reso protagonista di una militanza turbolenta e sanguinaria nella resistenza, aveva operato numerose estorsioni e rapine nel primo dopoguerra, ai danni di ex fascisti ed industriali. La corte di Assise assolse l’imputato nel 1958 a causa di insufficienza di prove per il caso Codecà, ma lo trovò colpevole di svariati crimini di guerra. I due testimoni non furono creduti anche a causa del loro provato risentimento nei confronti di Faletto.
All’enigma legato al movente e all’identità dell’assassino se ne aggiunsero presto altri che nacquero già con le prime indagini sulla vita dell’ingegnere. Nei cassetti della scrivania di Erio Codecà furono ritrovati fogli in linguaggio cifrato che secondo i colleghi interrogati non avevano nulla a che vedere con comunicazioni ed ordini di natura lavorativa. Dato il passato della vittima si formularono varie ipotesi di spionaggio industriale e vendita di informazioni ai paesi comunisti, con cui l’Alleanza Atlantica vietava di comunicare o collaborare per tutto il periodo della Guerra Fredda. L’ingegnere, che si era laureato a Grenoble nel ’26, una volta entrato in Fiat era stato inviato a Bucarest a dirigere la filiale rumena e successivamente quella di Berlino nel 1935. Stette 8 anni a lavorare nella Germania nazista, finché fu rimandato in Italia nel 1943.
Qui, durante l’occupazione nazista dopo l’8 settembre, si occupò del cosiddetto “Ufficio Germania”, coordinando l’industria bellica e lavorando come intermediario con il comando Tedesco che si occupava della fabbrica torinese. Indagini più recenti hanno dimostrato come il generale Leyers, interlocutore di Codecà, abbia ricevuto una “ricca consulenza” dalla Fiat a guerra finita. L’abilità dell’ingegnere nel gestire situazioni difficili era quindi conosciuta. Nel ’50 viene inserito, con suo non celato malcontento, nel direttivo della Spa, ove si occupava di autocarri e trattori. Come venne fatto notare molti anni dopo, faceva riflettere il fatto che al Salone dell’Automobile del ’51, fu immortalato Erio Codecà a colloquio con l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Era evidente che l’ingegnere avesse un ruolo importante a livello di immagine e comunicazione esterna, nonostante quanto si pensasse. Alcune ipotesi affermavano che la Fiat stessa avesse rapporti segreti con la Polonia per il carbone, che non si erano pertanto interrotti con le proteste americane e che continuavano clandestinamente. Poco prima di morire Codecà aveva ricevuto diverse minacce e temeva per la sua vita, come confessò alla segretaria.
Arrivò persino a pensare di trasferirsi in centro città per diminuire i rischi. All’indomani della morte della vittima comparvero nello stabilimento Fiat Grandi Motori di corso Vercelli a Torino, scritte inneggianti all’assassinio, con chiari riferimenti alla lotta di classe: “E uno!”. Codecà tuttavia, non aveva mai operato licenziamenti, non aveva rapporti diretti con gli operai e non aveva mai preso posizioni politiche apertamente. Nonostante l’incentivo di una taglia di 28 milioni di lire, offerto dalla Fiat e dall’Unione Industriali, l’inchiesta non porto a nulla, si dilungò nel tempo e come capita sempre in questi casi le prove si persero e le memorie si fecero labili. Ancora oggi la morte di Erio Codecà non ha una spiegazione.
Michele Albera





 Appello mortale - Sfida dal passato  di Rocco Ballacchino









Ci sono gialli che si limitano a darci uno sguardo su un’indagine, una cronologia di una investigazione. Qui ci troviamo di fronte a qualcosa di più. “Appello mortale” di Ballacchino è un libro dai ritmi impeccabili, ma che non tralascia l’aspetto emotivo. L’autore sorprende e regala una corsa per fermare un omicida seriale, condita dalla storia personale e malinconica del protagonista. Una vicenda in cui Torino non è soltanto lo sfondo delle indagini e dei crimini, ma quasi uno stato d’animo che aleggia sui personaggi. Passato e presente vengono a mischiarsi e confondersi nelle indagini del professore di matematica Andrea Corioni e della “spalla” Ugo Visconti. Il duo di investigatori improvvisati diverte e aiuta a mantenere i toni della narrazione frizzanti e leggeri. Rocco Ballacchino ha un taglio pulito ed un ventaglio di termini ampissimo che passa dal vocabolo ricercato alla parolaccia con un utilizzo sempre azzeccato. I colpi di scena sono molti e non stupisce che l’autore abbia anche all’attivo alcune sceneggiature di cortometraggi ed un book trailer di questo romanzo, cosa ancora poco comune da noi, ma operazione consolidata oltreoceano. “Appello mortale” scorre veloce e sa catturare il lettore senza perdersi mai in dettagli e divagazioni, una caratteristica sempre più rara nella letteratura attuale. La trama lascia anche spazio e riflessioni e come è evidente già dall’incipit, Ballacchino invita il lettore a “giocare” con l’indagine. Appello mortale - Sfida dal passato è una scommessa vinta e ci dimostra che c’è ancora posto per l’originalità nel mondo del giallo. Da leggere.


TITOLO: Appello mortale - Sfida dal passato


AUTORE: Rocco Ballacchino


EDITO DA: Il Punto – collana Bancarella


ANNO: 2010


PREZZO: 7 € 00


PAGINE: 192 p., brossura